Separazione delle carriere e separazione dei poteri

Tutti abbiamo sentito parlare di separazione delle carriere della magistratura e della diatriba che si sta sollevando a seguito della riforma in atto ma i “non addetti ai lavori”, di norma, non ne comprendono appieno il significato, se non attraverso le proclamazioni di parte delle diverse posizioni politiche.

Per spiegare la questione è necessario partire da un argomento altrettanto complesso, quello della separazione dei poteri.

E’ dai tempi della scuola dell’obbligo che ci insegnano che i poteri dello stato sono tre: il potere legislativo, il potere esecutivo ed il potere giudiziario, ma per comprenderne il significato è necessario partire da lontano.

Nelle sue forme primordiali lo stato (o quello che era, visto che il concetto di Stato è, relativamente, moderno) è composto da un unico potere, quello del monarca (dal greco: unico capo) il quale non ha concorrenti nel gestire il potere; tutta l’organizzazione amministrativa dipende da lui, che ha sempre l’ultima parola; non è detto che non esistano consigli, parlamenti o giudici ma questi sono, comunque, sottoposti alle decisioni del suo “palazzo”.

Con lo sviluppo della complessità dello Stato, il monarca inizia ad avere necessità della collaborazione (soprattutto economica) del popolo, in particolare per finanziare le guerre, per cui chiede l’intervento più incisivo dei sudditi i quali, soprattutto nei momenti di maggiore difficoltà del sovrano, riescono a strappare alcune concessioni, come quella definita no taxation without representation che significa che, per poter imporre oneri tributari, il sovrano necessita del parere favorevole dei rappresentanti dei sudditi.

Nasce, in questo modo, la riserva di legge in materia tributaria, che poi si estende alle altre materie fondamentali, tra le quali la materia penale.

In questo modo nasce il parlamento che emana leggi, generali ed astratte, che vincolano anche l’azione del sovrano e, conseguentemente, nasce un ulteriore potere terzo che è quello dei giudici che vigilano, come indipendenti, che le azioni del governo non vadano contro la legge.

Nasce, così, lo stato di diritto, fondato sulla separazione dei poteri.

A questo punto sono necessarie due puntualizzazioni; la prima: questa trasformazione non è stata incruenta, pensiamo alla rivoluzione francese, ma anche alle battaglie, in Inghilterra, tra i realisti ed i parlamentaristi; la seconda: che gli stati nascono con caratteristiche “di polizia”, poi assumono le caratteristiche “di diritto” per poi tornare come erano all’origine. Un esempio è rappresentato dall’ordinamento di Roma antica; nasce come monarchia (i sette re) si struttura come repubblica, con propri parlamenti (comizi), amministratori (consoli ed altre cariche) e giudici (pretore) per poi tornare a concentrare i poteri in un singolo imperatore, con la fase imperiale.  

Per quanto concerne la materia penale, lo ius puniendi inizialmente esercitato dal sovrano monarca, viene trasferito al Parlamento, con la “riserva di legge” ed il principio di legalità espresso dai brocardi nulla poena sine lege e nullum crimen sine lege  nel senso che non si può ritenere colpevole un soggetto se la sua condotta non viola una legge del parlamento e non può essere comminata una pena che non sia prevista da una legge.

Il sovrano, pertanto, nel momento in cui vorrà punire qualcuno, lo potrà fare solo in forza di una legge e, comunque, solo un giudice terzo potrà autorizzarlo a punire, a seguito di un giusto processo, dove tutte le parti sono rappresentate. 

Lo schema è quello secondo il quale se un soggetto viola la legge il sovrano lo cerca e lo cattura, tramite la sua polizia, lo porta davanti ad un giudice e, solo a seguito di condanna, lo potrà punire, sempre tramite la sua polizia.

In uno stato di diritto, però, c’è un problema; chi potrebbe impedire al sovrano di applicare la legge penale solo nei confronti di chi non sia dalla sua parte, consentendo ai suoi di scorrazzare violando la legge e, magari, intimidendo i suoi avversari politici?  E’ a questo punto che nasce l’esigenza di creare un soggetto che non sia un mero soldato, dipendente dal governo, ma colui che esercita l’azione penale debba avere una certa indipendenza, tanto da abbandonare la spada per indossare la toga ed entrare nella curia del giudice, quale parte di un collegio, assicurando che la legge penale sia applicata nei confronti di tutti, secondo un principio di uguaglianza; anche la polizia stessa assume, in quel caso, il ruolo di “polizia giudiziaria” sotto la direzione dell’accusa e non del governo. 

Ogni Paese, quindi, interpreta a suo modo questo tentativo di “far quadrare il cerchio” trovando un equilibrio col quale conformare la figura dell’accusa. Ad esempio, negli Stati Uniti, il pubblico ministero è una carica elettiva del popolo (politica) con i dovuti contrappesi che ne garantiscano l’imparzialità.

In Italia, in occasione della scrittura della Costituzione, si era discusso tra il modello inteso da Calamandrei, dove il pubblico ministero faceva parte del potere governativo e quello di Leone, che ha prevalso, che ha previsto il P.M. quale vero e proprio magistrato, sottoposto allo stesso Consiglio Superiore della Magistratura degli organi giudicanti (terzi nei confronti del potere esecutivo).

La formula “Leone”, peraltro, come si è avuto modo di verificare, rischia di creare problemi analoghi a quella “Calamandrei” .

L’appartenenza dell’accusa e dell’organo giudicante ad un unico ente indipendente, come è il Consiglio Superiore della Magistratura, che decide sugli spostamenti e sulle azioni disciplinari, rischia di porre in essere una “vicinanza” pericolosa. 

Facciamo un esempio; il C.S.M. [Consiglio Superiore della Magistratura] è un organo collegiale e, come tutti gli organi collegiali, è organo “politico”, nel senso che decide sulla base discrezionale di una maggioranza; qualora una parte politica di maggioranza volesse perseguire i soli rappresentanti del governo (o dell’opposizione) lo potrebbe fare posizionando i suoi “fedeli” in zone strategiche, dove accusa e giudicante condividano gli stessi principi e, di conseguenza, l’interpretazione della legge potrebbe venire “piegata” a favore o, più facilmente, contro qualcuno.

Il risultato è molto simile a quello che potrebbe accadere quando l’accusa dipendesse dal potere esecutivo.

Esiste, infatti, un’Associazione Magistrati, che è contraddistinta, di fatto, da “correnti politiche” che, una  volta prevalenti nell’associazione, mandano i loro rappresentanti nel C.S.M..

La riforma in atto, oltre a dividere le due carriere (accusa e giudice) sottoponendoli a due Consigli Superiori autonomi (accusa e giudice), introduce la scelta a sorte dei rappresentanti, ad evitare che le “correnti” possano influenzare gli organi di governo della magistratura.

La riforma, modificando la Costituzione, dovrà formare oggetto di referendum.  

Paolo Gatto

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