Circa quindici anni fa, confrontandomi con un geometra di lunga esperienza, consulente del Tribunale, avevo chiesto fino a che punto il prezzo degli immobili sarebbe potuto decrescere e lo stesso mi aveva risposto che, tale prezzo, non sarebbe potuto scendere al di sotto del costo di costruzione (terreno, materiale e mano d’opera).
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Al tempo ero piuttosto scettico su tale principio e i miei dubbi provenivano dal gran numero di fallimenti, dichiarati nelle province del Piemonte, di costruttori che non erano riusciti a vendere ville, costruite ex novo, in quanto il prezzo di mercato non fosse riuscito a raggiungere i costi impiegati per la costruzione.
Il prezzo di un immobile è il risultato della somma del costo del terreno, dei materiali e della mano d’opera, degli oneri di urbanizzazione ma, soprattutto, dipende dalla richiesta, quindi, dal mercato.
La questione è che, oggi, la scarsa richiesta rischia di fare scendere il valore complessivo al di sotto della linea dei costi di area e costruzione, compresi oneri di urbanizzazione.
Per chi, invece, la proprietà già la possiede il problema diventa quello del mantenimento.
La casa non mangia, si diceva una volta, oggi non è più così; imposte patrimoniali (IMU) ma, soprattutto, spese di manutenzione, rendono le proprietà del tutto antieconomiche, tanto che una buona parte di beni immobili, nelle periferie più modeste, rischia di uscire dal mercato abitativo e commerciale per scarsa richiesta e, soprattutto, per scarsa manutenzione.
Il calo dei valori al di sotto del costo di costruzione non impone solo uno stop alle nuove costruzioni (con evidenti danni all’economia e all’occupazione) ma tale questione coinvolge anche i cittadini comuni che non trovano più economicamente sostenibile provvedere alla manutenzione dei propri immobili, di fatto relegandoli ad una situazione di “fuori mercato”; il rifacimento di un tetto può costare, a chi esercita il diritto di calpestio, anche trentamila euro, cioè, il prezzo commerciale dell’intero immobile
La concentrazione di ricchezza in pochi nodi economici ha reso irraggiungibili le locazioni, ad esempio, a Milano, mentre lo spopolamento ha, di fatto, reso inutile (quindi, commercialmente non appetibile) buona parte del patrimonio immobiliare di città come Genova, che è passata, negli ultimi quarant’anni, da quasi un milione di abitanti a poco più della metà.
Tale fenomeno si avverte concretamente nelle zone popolari dove, nei condomìni, buona parte dei partecipanti non ritiene più sostenibile il costo della manutenzione, imponendo un abbandono che renderà intere zone popolari fuori mercato.
Né l’immigrazione riesce a compensare la perdita di valore in quanto si tratti, nella generalità dei casi, di soggetti con scarse possibilità economiche e, soprattutto, non in grado di affrontare, contemporaneamente, i costi di mutuo e di manutenzione.
Tanto premesso è prevedibile che venendo meno, nei prossimi dieci, quindici anni, la popolazione più anziana (ed oggi più numerosa) si avrà un’ulteriore perdita di valore; gli eredi cercheranno di disfarsi dei beni ed il prezzo sarà destinato a calare ancora.
Ben vengano, pertanto, almeno nelle città in crisi, le formule di locazione alternative (B&B e similari), che riescano a rivalutare le zone più belle, così inducendo una conseguente riscoperta e rinascita anche delle periferie, oggi a rischio di abbandono.
Paolo Gatto