“Maccacco!” Gli urlavo non appena la porta dell’aula gli si era chiusa alle spalle; vagamente somigliante all’attore Peter Lorre, già sulla sessantina Pietro T., mio insegnante di matematica del liceo “picjin brüttu e cattihu” come era stato descritto nella rivista della scuola, era noto in tutto l’ambiente scolastico ed in tutto il ponente genovese per i suoi modi diretti; per nulla indulgente, era temuto da alunni e genitori in quanto non avesse remore a dire in faccia ad un padre che suo figlio non capiva niente e che sarebbe stato meglio fosse andato a lavorare, con tutto il bisogno che c’è di mano d’opera specializzata. Più volte venuto a contrasto con i dirigenti della scuola non accettava compromessi e manteneva i suoi modi grezzi, molte volte strafottenti e canzonatori, non di rado anche maneschi, che lo contraddistinguevano.
C’è stato un fatto, però, che ha messo il “Macaco” in cima alla mia classifica degli insegnanti; non si limitava a dire dovete studiare, dovete impegnarvi, come facevano tutti gli altri, ma è stato l’unico che ci avesse detto voi dovete…pensare….
Cosa significa “pensare”? Pensare significa esercitare un’attività “critica” (da kritès, giudice), raccogliere le informazioni, controllarle, valutarle, apprezzarle e formulare una conclusione logica, razionale ma, soprattutto, franca da condizionamenti; domandarsi sempre del perché di tutto, ma non lasciare che siano gli altri a rispondere è una delle mie massime.
Perché diciamolo chiaro, la nostra scuola è rimasta la stessa del ventennio; autoritaria, senza dialogo tra docenti ed allievi, con l’insegnamento che non va oltre la spola libro di testo-interrrogazione, dove l’educazione civica rimane sempre fuori dai programmi, perché prima ci sono le varie battaglie; una scuola che ti insegna ad ubbidire, ad imparare le nozioni che ti propongono e non a pensare, ma che non riesce a contenere il bulletto di turno.
Un altro insegnante “secondario” per la materia insegnata e, soprattutto, per le modalità con le quali insegnava (più di una volta si era addormentato in classe) aveva avanzato, però, alcune considerazioni che oggi ci pongono delle questioni spinose; già a quei tempi si parlava di eutanasia; quest’insegnante (scienze) si era dichiarato scettico proprio in quanto si sarebbe cominciato con i malati gravi, poi si sarebbe passati ai vecchi, poi ai cattivi e, infine, ai brutti; forse non sapeva quanto questa previsione si sarebbe rivelata profetica; la Consulta, nel novembre 2019, aveva dichiarato, in certi casi, ammissibile l’eutanasia; pochi anni più tardi, in materia di vaccinazioni covid, la stessa Consulta ne ha dichiarato legittima l’obbligatorietà anche se sia accertato che, tale trattamento, possa portare alla morte atteso che, in ogni caso, è previsto un indennizzo; in pratica ha autorizzato il sacrificio del singolo a favore della collettività, di fatto, ha deciso per l’equazione: vita umana = settantasettemila euro e rotti.
A tre anni dalla dichiarazione sull’eutanasia si è già arrivati a dare un prezzo alla vita umana quando si ritenga di doverla sacrificare.
D’altra parte, però, lo stesso insegnante si era espresso, in modo difforme, sulla pena di morte: “l’unico modo per essere certi che un assassino non uccida di nuovo è eliminare lui”; ragionamento che non fa una piega. Oggi la questione, almeno in Europa, è fuori discussione. Ma quanto, la regola europea, può essere definita “morale” e non, invece, “moralista”? Scelta morale è quando si è costretti a scegliere tra due opzioni entrambe sbagliate; moralista è quando si ritiene, senza se e senza ma, che la nostra scelta sia quella giusta; se è vero, infatti, che lo Stato non può sopprimere un essere umano è anche vero che, ragionando in questi termini, si rischia di giocare a dadi con la vita di innocenti; pare che la maggior parte di chi abbia scontato la pena non torni a delinquere, ma ciò significa che una buona percentuale ci torni e che, di conseguenza, è molto più responsabile chi, come negli Stati Uniti, lasci una certa discrezionalità nella scelta; forse non è che questo considerare sacra ed inviolabile solo la vita del criminale non celi la convinzione che i veri criminali siano le persone “normali” che stanno fuori e le vittime quelli che stanno dietro la sbarre? L’affermarsi delle teorie woke paiono confermare questa convinzione.
Discostandoci dall’argomento, ma rimanendo nell’ambito dell’intelletto e delle sue funzioni, intendo evidenziare come la suddetta “deriva del pensiero” sia, ormai, insita nella nostra società e la stia portando al baratro; qualcuno potrà rivedere, sulla nostra piattaforma, il mio discorso all’assemblea nazionale e di come avessi sottolineato che la scelta di Pasolini, in luogo di Gramsci, avesse indirizzato la politica didattica di una parte ben definita.
Parliamo, ora, di prestazione; a molti sarà nota la differenza tra “prestazione di mezzi” e “prestazione di risultato”; prestazione di risultato è quando l’obbligato è tenuto a fornire un oggetto materiale; ad esempio, un falegname che è tenuto a fornire un armadio, dovrà fornire quel dato bene secondo la regola dell’arte. Normalmente, peraltro, le prestazioni professionali sono di mezzi; ciò postula che il professionista non sia obbligato ad assicurare il risultato, nella sua opera, ma sia tenuto a mettere a disposizione tutti i suoi mezzi (normalmente il suo bagaglio tecnico) per garantire un dato risultato; se il risultato non sarà raggiunto la prestazione dovrà essere, ugualmente, remunerata a meno che il risultato non sia stato fallito per colpa.
Il motivo della suddetta differenziazione è che l’obbligazione di risultato sussiste quando l’opera richiesta sia del tutto “misurabile” possa essere valutata nella sua consistenza fisica e possa essere riprodotta anche in serie diversamente, una prestazione professionale, non è misurabile, ma dipende dalle capacità, dall’esperienza, dall’intelligenza, dalla serietà e dalla preparazione del professionista tanto che, qualora il risultato non sia raggiunto, non è possibile una critica se non attraverso una complessa verifica circa l’insussistenza di imperizia, negligenza o imprudenza, e sempre attraverso un apprezzamento soggettivo (e, di conseguenza, per nulla assoluto) di un esperto.
Tale ragionamento postula che, per un professionista, sia del tutto avvilente una “beauty contest” basata solo sul prezzo, come avviene per un artigiano che è tenuto ad assicurare un risultato sulla base di un progetto ben definito. Normalmente, ad esempio, è l’amministratore che sceglie l’avvocato, sulla base della sua esperienza con quel dato professionista ed il preventivo viene valutato, in assemblea, solo ed esclusivamente per motivi di trasparenza; di recente, peraltro, si sta già assistendo a quel mero “raffronto dei prezzi” che avviene per la scelta dell’amministratore dove invece si leggono, in maniera frettolosa, i preventivi, per scegliere quello che garantisca il miglior rapporto “prossimità-prezzo”.
Chiaramente la deriva della professione nasce dal suo impoverimento intellettuale; chi investe in qualità quando solo il prezzo rileva nella scelta del professionista quando il prodotto della sua qualità non è misurabile? In questo senso sono andate le liberalizzazioni, nel concentrare la ricchezza, anche intellettuale, verso l’alto e impoverire, soprattutto intellettualmente, la popolazione.
Un esempio lo abbiamo nei concorsi in magistratura, dove non riescono a garantire il numero richiesto di candidati che abbiano superato le prove scritte.
Questo, per concludere, che la prima ricchezza sono le idee, il denaro è solo una forma “misurabile”e l’impoverimento del nostro universo occidentale nasce proprio dalla mancanza di idee, dall’ignoranza di ritorno, dal controllo delle menti, che si attua nel momento in cui ci colleghiamo alla rete, dove non ci colleghiamo solo ad una macchina, ma dove il nostro pensiero si collega ad un sistema “ad invarianza di scala” dove chi ha un bagaglio sufficiente di idee ne trae utilità chi ne difetta, al contrario, diventerà sempre più “povero” con le conseguenze alle quali stiamo assistendo.
Paolo Gatto
Presidente Nazionale ALAC